Campagne oceanografiche
Missione Microbioma: due mesi nell’oceano Atlantico a bordo della barca a vela Tara
Questo è il racconto di un viaggio unico ed emozionante, a bordo di una barca a vela chiamata Tara, della fondazione TaraOcean. L’avventura comincia in un centro di ricerca in Cile, precisamente a Punta Arenas nella fredda Antartide cilena e finisce in Sudafrica, nella caotica Cape Town passando per le isole Falkland, la remota Georgia del Sud e per lo sconfinato oceano Atlantico.
Il soggiorno al centro IDEAL nell’Antartide Cilena e l’ombra del Covid-19
Prima di salpare per l’oceano, gli scienziati e i membri dell’equipaggio in procinto di salire a bordo per la missione, venivano ospitati nel “Center for Dynamic Research of High Latitude Marine Ecosystems” (IDEAL) di Punta Arenas (Cile). Chi arriva ha modo, non solo di ambientarsi prima della partenza, ma anche di familiarizzare con i vari protocolli scientifici, gli spazi a bordo e il materiale. Oltre ad imparare i protocolli della missione, al centro IDEAL ho avuto modo di stringere amicizia con i miei futuri compagni di avventura, di assaggiare piatti tipici del posto, uno su tutti il “King Crab” (granchio reale) orgogliosamente cucinato per l’occasione da uno dei responsabili cileni del centro. All’inizio, come sempre alla vigilia di una campagna oceanografica, ero allo stesso tempo emozionato e agitato. Non solo sarebbe stata la spedizione più lunga a cui avessi mai partecipato, ben due mesi in mezzo alle onde dell’oceano, ma anche perché sarei stato il primo Italiano a partecipare a questa spedizione in rappresentanza del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
La campagna oceanografica a cui stavo per partecipare faceva parte della Mission Microbiome, una spedizione che per quasi due anni avrebbe viaggiato tutto il mondo studiando i benefici del microbioma marino e le sue interazioni con il clima e l’inquinamento. Io prendevo parte alla spedizione come operatore B, incaricato dei protocolli biogeochimici e delle filtrazioni con il sistema da 47mm (la misura del diametro dei filtri utilizzati durante il processo di filtrazione) per nanoplastiche, metabolomica (una tecnica che permette di ottenere informazioni su piccole molecole prodotte dal metabolismo dei microorganismi marini), carbonio organico particolato (POC), mercurio particolato, DNA ambientale (eDNA) e ovviamente sostanza organica disciolta (DOM).
Partenza: i furious fifties, le Falkland e la Georgia del Sud
Alle prime luci dell’alba di un 4 Marzo freddo e nuvoloso, Tara, lascia la baia di Punta Arenas e si avventura per lo stretto di Magellano. Le acque verdognole e rigogliose dello stretto, lasciarono presto il posto ad un blu intenso, quello dell’oceano Atlantico. Durante i primi giorni di navigazione, il tempo scorreva lento tra una lezione sulla sicurezza a bordo, una sull’andare a vela e un’altra a ripassare i protocolli di campionamento. Il mare sembrava volerci regalare un po’ di calma, di slancio iniziale, una specie di regalo per i primi giorni di navigazione, ben accetto da tutti noi che stavamo cercando di abituarci ai movimenti lenti e costanti della barca che ci avrebbero cullati per i successivi due mesi.
Avevamo lasciato la terra ferma da pochi giorni ma lo spettacolo della natura incontaminata di queste acque, degno di un documentario della National Geographic, non si era fatto attendere. Stormi di cormorani reali (Leucocarbo atriceps) volavano sopra le nostre teste sfruttando la scia delle vele spiegate tutti uniti in formazione. Curiosi e agili delfini di Commerson (Cephalorhynchus commersonii) spuntavano di tanto in tanto sulla scia dell’onda creata dalla chiglia della nave. Una giovane megattera in lontananza sbatteva la coda sulla superficie dell’acqua per stordire il krill, abbondante in quelle acque, prima cibarsene.
Con l’avvicinarsi delle isole Falkland (isole Malvine) lungo la rotta, anche il mare iniziò a farsi più tempestoso e il vento più forte. Era solo una questione di tempo, dato che ci trovavamo nel 50° parallelo, dove forti venti da ovest, chiamati “furious fifties”, soffiano abitualmente tra i 15 e i 25 nodi. Ricordo che in quei giorni, con le vele spiegate e il vento in poppa, la barca si adagiò su un fianco e iniziò a scivolare sulle onde, come su una tavola da surf, fu in quel momento che realizzai cosa significa veramente andare a vela. Il silenzio senza motore acceso, il rumore delle onde e del vento ad accompagnarci. La vera essenza dell’andare per mare, a stretto contatto con l’oceano.
Arrivati alle isole Falkland, il forte vento ci costrinse a ripararci in una piccola baia per un giorno e una notte prima di riprendere il mare aperto, alla volta della Georgia del Sud. Anche se il vento era leggermente calato, il mare non ci dava tregua e costrinse la maggior parte del team scientifico, me compreso, alla resa incondizionata. Sdraiati sulle brande, con gli occhi chiusi e lo stomaco a contorcersi come in un lamento senza fine, ad aspettare che tutto passasse. Per precauzione, a chi non stava bene, veniva consegnato un secchiello con sul fondo disegnata una faccia sorridente, giusto per sdrammatizzare e riderci un po’ su. A bordo iniziò una specie di spaccio di banane, alimento consigliatissimo in questi casi, e di pasticche contro il mal di mare. Ricordo che la prima notte di mare in burrasca avevo il turno di guardia dalle 4 alle 6 del mattino, uno dei turni più impegnativi. Con altri due membri dell’equipaggio, andammo a issare la vela di prua, chiamata Yankee. Armeggiare di notte, con gli spruzzi d’acqua gelata e il vento tagliente ad ogni sobbalzo della nave è stato allo stesso tempo suggestivo e spaventoso. Fortunatamente i membri dell’equipaggio, decisamente più abituati di noi al mare in tempesta, presero in mano la situazione fino a che anche noi non iniziammo ad abituarci. Ed ecco che, dopo qualche giorno di mare in burrasca e di veleggiare spensierato, in mezzo ad una fitta nebbia, ecco spuntare le prime rocce della Georgia del Sud. Ad accoglierci, gli albatross (Diomedea exulans), come per darci il benvenuto nella loro terra.
L’esperienza in Georgia del Sud è stata davvero emozionante. Abbiamo avuto l’opportunità di visitare la più grande colonia di pinguini reali (Aptenodytes patagonicus) dell’isola, di ammirare la bellezza delle otarie (Arctocephalus gazella) da pochi metri, la maestosità degli albatross e la goffaggine degli elefanti marini. Muovendoci agili e veloci in mezzo agli isolotti, abbiamo navigato fino ai piedi di un ghiacciaio che tocca il mare. Abbiamo avuto l’opportunità di accompagnare la ricercatrice Alice Poncet, nostra guida durante il soggiorno sull’isola, a contare gli albatross, procedura essenziale per il loro monitoraggio. Ma la visita in Georgia del Sud è stata anche un momento di intensa riflessione, legata soprattutto alla memoria dei balenieri, che in queste isole hanno portato vicino all’estinzione diverse specie di cetacei e di foche, nonché messo a rischio il fragile ecosistema dell’isola importando specie “aliene”, principalmente ratti e renne, queste ultime diventate uno dei simboli dell’isola.
Nel vivo della Missione Microbioma: a caccia di vortici nello sconfinato Oceano Atlantico
Con la Georgia del Sud ormai alle spalle e il vento a nostro favore, iniziammo ad entrare nel vivo della missione. Il nostro obiettivo era riuscire ad individuare e a campionare dentro, fuori e al limite di uno o più vortici oceanici, chiamati “eddies” (un eddy è una struttura oceanica, un grande vortice di corrente di acqua largo decine di chilometri che si muove in senso orario o antiorario). L’eddy che avevamo individuato era stato denominato per l’occasione “Sally” in onore proprio della ricercatrice Sally Poncet, nostro faro durante il soggiorno in Georgia del Sud. La scelta dell’esatta posizione delle stazioni di campionamento non fu facile, aveva richiesto un intenso lavoro di coordinamento fra gli scienziati a bordo e a terra, i quali ci inviavano informazioni satellitari sulla posizione dei possibili eddy quasi in tempo reale.
Uno degli obiettivi era testare l’ipotesi che alle estremità di questi vortici oceanici la diversità e la complessità biologica aumenta, mentre al centro, una maggiore competizione all’interno del microbioma marino, fa prevalere determinate specie. Una volta individuata la stazione e preparato tutto il materiale necessario (bottiglie, etichette, filtri ecc…), ci aspettavano dei giorni intensi di campionamento. In una giornata arrivavamo a lavorare ininterrottamente su e giù per la nave anche per più di 17 ore consecutive, dalle prime luci dell’alba fino a notte fonda. La routine della giornata veniva scandita dalle calate della rosetta (uno strumento per campionare acqua a diverse profondità e allo stesso tempo registrare parametri come salinità, temperatura e profondità), dalle filtrazioni e dagli spettacolari ritrovamenti nei retini da zooplankton. Gli emozionanti avvistamenti di balene e altri cetacei, da soli ripagavano di tutte le fatiche della giornata. Ricordo che le megattere, incuriosite da quello strano oggetto galleggiante di metallo, ci giravano intorno, sbuffando di tanto in tanto come a volerci salutare. Dopo giorni di campionamenti e spostamenti, il mare iniziò di nuovo a farsi sentire. Sapevamo che, nei così detti “quaranta ruggenti”, il tempo non sarebbe stato stabile e calmo per sempre, ma fortunatamente riuscimmo a campionare quattro stazioni complete e a seguire, seppur con qualche modifica dovuta alle condizioni, il piano originale di campionamenti.
Ricordo che, alla fine di una giornata di intensi campionamenti, nonostante tutti sognassimo il letto più di ogni altra cosa, tutta la squadra si mise ad aiutare il capo missione che stava assemblando dei Lagrangian drifters (dei dispositivi galleggianti usati per investigare i movimenti delle correnti oceaniche) da lanciare durante la notte. Questi piccoli gesti, a mio avviso, fecero la differenza durante le faticose stazioni di campionamento. Ovviamente non sono mancati i problemi, le incomprensioni e gli errori, ma ognuno di essi, piccolo o grande che fosse, veniva affrontato insieme, risultando più facile da superare.
Finita la prima parte di campionamenti, iniziammo a muoverci verso Est, con il vento ancora a favore e una velocità che a tratti sfiorava i 12 nodi, “surfando” letteralmente sulle onde. Mi ricordo che per la prima volta da quando avevamo lasciato terra, mi resi conto di quanta strada avevamo fatto e di quanta ancora dovevamo farne. Realizzai in quei giorni di viaggio cos’era veramente la vastità dell’oceano che ci circondava. Eravamo lontanissimi dal mondo che ci eravamo lasciati alle spalle. Come ci fece notare il capo missione, per la maggior parte del nostro viaggio, gli esseri umani più vicini a noi sarebbero stati quelli in orbita sulla stazione spaziale internazionale, che ci passavano sopra la testa di tanto in tanto. Non era una metafora, era la pura verità, essendo fuori dalle rotte commerciali, dalle convenzionali tratte aeree di linea e lontanissimi da terra! Pensieri malinconici sulla solitudine a parte, arrivammo veloci verso il nostro prossimo obiettivo: campionare ad alta risoluzione orizzontale tra due fronti, cioè all’interfaccia tra due eddies, uno anticiclonico (movimento orario) ed uno ciclonico (movimento antiorario). L’idea era di attraversare trasversalmente due eddies e fare il maggior numero possibile di campionamenti in superficie in modo da avere un’alta risoluzione in questi ambienti estremamente dinamici e complessi.
La temperatura si era alzata leggermente, ci eravamo lasciati alle spalle le fredde acque antartiche. Navigavamo in acque più calme, inclinati un po’ a destra e un po’ a sinistra guidati dalle mani esperte del capitano e dei membri dell’equipaggio. Il mal di mare era ormai solamente un ricordo, iniziai a trovare piacevole il rollio continuo della barca, ad amare il silenzio delle vele. Senza il rumore assordante del motore diesel, il rumore dell’onda che si infrangeva sulla chiglia e il cigolio delle vele spostate dal vento, mi faceva sentire in perfetta simbiosi con il mare circostante.
La strategia di campionamento che avevamo scelto per questa seconda parte della missione era molto dinamica e comprendeva tre diversi scenari a seconda delle condizioni che ci saremmo trovati di fronte. Il tutto richiedeva una buona coordinazione tra noi e gli scienziati rimasti a terra, un gran lavoro di squadra e anche una buona dose di fortuna! Era stata individuata un’associazione di 4 grandi vortici oceanici, con caratteristiche diverse (cicloniche e anticicloniche) che portavano alla formazione di fronti e di filamenti di diversa origine, con una diversa concentrazione di clorofilla (una misura associata alla produzione primaria, che ci da un’idea della quantità di fitoplancton presente) e di nutrienti, tutte condizioni perfette per analizzare lo stretto legame che c’è tra le comunità biologiche e le caratteristiche fisiche della colonna d’acqua. In men che non si dica, i campionamenti e il lavoro si fecero serrati, ma tutto ormai si muoveva come un solo ingranaggio ben oliato.
Gli ultimi campioni nelle ricche acque di St Helena Bay e l’arrivo a Città del Capo
Ricordo benissimo il nostro avvicinamento alle coste del Sudafrica, la prima nave sui radar! Un mercantile gigantesco di oltre 200 metri. Qualche pezzo galleggiante di plastica, inequivocabile segno del nostro avvicinarsi verso la civiltà. Il cambio repentino dell’odore nell’aria, le acque di colore verde, ricchissime di vita rispetto all’oligotrofico (ovvero povero di nutrienti) Oceano Atlantico. Ancorammo Tara vicino ad una spiaggia a St. Helena Bay e poi fu una grande festa. Un tuffo nelle fredde acque, con qualche paura per gli squali! L’arrivo di alcuni curiosi kayakisti di passaggio, un barbecue sul ponte, qualche birra, un tramonto mozzafiato e i nostri abbracci. Ci chiedevamo qual era la cosa che ci era mancata di più durante il nostro lungo viaggio e cosa avremmo fatto una volta tornati a casa. Ricordo la prima telefonata a casa, dopo quasi due mesi di messaggi di testo.
Nonostante l’euforia generale, la nostra missione non era ancora giunta al termine, ci aspettava ancora una settimana di intensi campionamenti, in un transetto a largo di delle coste Sudafricane. Le quattro stazioni che dovevamo campionare facevano parte di una serie storica di monitoraggio distribuita tra una zona di upwelling (ovvero dove c’è una corrente di risalita verso la superficie) e la piattaforma continentale a largo di St. Helena Bay. Stazioni già fissate, decisamente più facili da trovare rispetto alle precedenti, non avremmo dovuto dare la caccia a nessun eddy “sfuggente” in mezzo all’oceano, nessuna “caccia al tesoro” per trovare il massimo di clorofilla. La zona di upwelling, ricca di nutrienti e di biomassa, rendeva le operazioni di filtrazione particolarmente lente e difficili, i filtri si intasavano facilmente e richiedevano una particolare attenzione nel regolare la pressione del sistema per non mettere a rischio i tubi e le guarnizioni. Essendo non troppo lontani dalla costa, a tenerci compagnia insieme a qualche megattera, banchi di otarie curiose e giocherellone accorrevano numerose intorno alla barca. Essendo quella una ricca zona di pesca, ci avevano scambiato per un peschereccio, sperando di procurarsi qualche pesce scartato di tanto in tanto. Purtroppo per loro, noi non calavamo lenze, ma strumenti e le nostre reti non intrappolavano pesci, bensì minuscoli microorganismi. Dopo qualche ora di giravolte e capriole in superficie, se ne andavano un po’ deluse, se non per tornare il giorno dopo con entusiasmo nuovo!
L’ultima calata della rosetta, l’ultimo filtro messo in congelatore, l’ultima bottiglia campionata, l’ultima notte in mare e gli ultimi momenti tutti nostri, solo noi, Tara e il mare a consolarci, prima dell’arrivo a terra, prima di venire nuovamente catapultati nella quotidianità. Per il nostro arrivo a Città del Capo era stata organizzata una grande festa, visite guidate sulla barca per le scuole e per curiosi di passaggio, numerosi buffet e cene con i ricercatori a bordo, i responsabili della missione microbioma e i dirigenti della fondazione Taraocean. Era un po’ strano tutto questo, faceva uno strano effetto vedere così tante persone salire a bordo, occupare quelli che per due mesi erano stati i nostri spazi, quella che per due mesi era stata la nostra casa, ma è così che funziona, la nostra spedizione era giunta al termine e la missione doveva andare avanti, era il momento di passare il testimone. Dopo aver istruito gli scienziati della spedizione successiva e aiutato a riorganizzare frigoriferi e spazi a bordo, era arrivato il momento di lasciarsi Tara alle spalle, di salutare i compagni d’avventura e di ritornare a casa. Non voglio spendere troppe parole sui saluti e gli inevitabili addii, preferisco concentrarmi sulle meravigliose persone che ho avuto il piacere di incontrare e conoscere profondamente. Ci tengo a nominarle tutte, una ad una, 12 persone straordinarie grazie alle quali il mio viaggio è diventato indimenticabile: Remi, Cora, Paula, Clara, Ali, Martin, Yves, François, Loïc, David (Monch) e Sophie.
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